11/01/11

Metropoliz. Stazione Rom-A.


Metropoliz. Stazione Rom-A
di Francesco Careri
(pubblicato su “Abitare” n° 503, pp. 94-101)

Dal cancello si vede una facciata di mattoni con appese una trentina di ruote di bicicletta luccicanti. Sembrerebbe una delle “ciclofficine” nate dappertutto in città, poi osservando le persone che entrano ed escono appare chiaro che quelle sono sicuramente ruote Rom, il simbolo del carro e della carovana, dei figli del vento o meglio del popolo eternamente in fuga. Dentro quel capannone che produceva motori per l’aviazione si trova la nuova “Stazione Rom-A”, un grande spazio voltato sotto cui una comunità di Rom Rumeni si è costruita un villaggio, piccole casette intorno ad una piazzetta comune da cui si diramano vicoli sempre più stretti. Un villaggio dentro una fabbrica, tanti tetti sotto un grande tetto. Vengono in mente le capanne nuragiche di Tiscali, costruite sotto un’immensa caverna più di 4000 anni fa. Invece questa è Roma, via Prenestina all’alba del terzo millennio, nella parte Rom del “Metropoliz”, una delle più interessanti occupazioni della capitale. Siamo in uno spazio autogestito diventato famoso per il servizio di Riccardo Iacona su “Presa Diretta” in cui gli architetti Rossella Marchini e Antonello Sotgia - due nomi storici della controurbanistica romana - proponevano un progetto di 200 nuovi alloggi, in applicazione della delibera del 2007 che consente di trasformare i capannoni industriali dismessi in edifici residenziali, a condizione di destinare una quota all’emergenza casa. Il progetto riguarda la gigantesca fabbrica di salumi della Fiorucci - oggi della Ca.Sa. Srl, l’impresa che costruisce la Metro C - occupata il 27 marzo 2009 dai Blocchi Precari Metropolitani, una delle sigle che insieme ad Action e al Coordinamento Cittadino Lotta per la Casa opera nella capitale per dare uno sbocco concreto all’emergenza casa, un emergenza che a Roma coinvolge più di 100 000 persone.



La novità del Metropoliz sta proprio nella presenza dei Rom: accanto a circa cento persone tra Marocchini, Eritrei, Ucraini, Peruviani, Dominicani, Tunisini, Polacchi e Italiani, adesso ci sono anche cento Rom Rumeni. In città non esistono esperienze miste di questo genere, i Rom sono un mondo a sé, separato e incomunicante con il resto della città, anche con chi vive la stessa miseria. Difficilmente si uniscono ad altre etnie, difficilmente si mischiano in rivendicazioni politiche, difficilmente si oppongono ad uno sgombero. È anche per questo che, nell’indifferenza generale se non nel plauso, con la chiusura dello storico campo Casilino 900 si è dato il via al trasferimento fuori del G.R.A di tutti i campi autorizzati oggi in aree appetibili e centrali, in quelli che il sindaco Veltroni insieme al Prefetto Serra (oggi senatore PD) avevano battezzato infelicemente “Villaggi della Solidarietà”. Campi di ultima generazione, il cui prototipo è Castel Romano, progettato direttamente dal gabinetto dell’ex sindaco: 1200 persone senza acqua potabile, in container di 32mq per 6 persone, con standard abitativi da pollaio, nel pieno di una riserva naturale protetta e con il primo negozio a sei chilometri di distanza. Il nuovo Piano Nomadi di Alemanno, aspramente contestato da Amnesty International, ha deciso di spendere i 40 milioni di euro che ha a disposizione - con cui si potrebbe risolvere un volta per tutte la “questione Rom” attraverso un definitivo inserimento abitativo e sociale - nella ristrutturazione e ampliamento dei villaggi veltroniani, in guardiania armata h 24 (notte e giorno), scolarizzazione con i bus, sistemi di sicurezza con alte recinzioni e telecamere a circuito chiuso, cartellini di “identità” con cui entrare e uscire (non oltre le 22.00), e costruzione di nuovi “villaggi”, in aree impossibili da reperire perché subito insorgono comitati di “cittadini” e si perdono consensi. Il tutto per un numero chiuso di 6000 persone, mentre le stime non ufficiali ne contano quasi 10000. siamo di fronte allo stesso piano “di emergenza” che si ripete da venti anni, che segue la crescita speculativa della città e si attrezza con sempre maggior determinazione per segregare i Rom fuori dalla vista dei cittadini, alimentando subcultura e criminalità.

In questo quadro desolante l’esperienza dei Rom del Metropoliz è del tutto anomala e controcorrente. È di fatto l’unica risposta auto organizzata alla proposta istituzionale e bipartisan del campo di concentramento etnico. I Rom che abitano queste casette, tutti molto giovani e con figli molto piccoli, vivevano prima nel “canalone di Centocelle” una baraccopoli di cartone e lamiera, senza acqua né luce, piena di topi, infangata d’inverno e senza un filo d’aria d’estate. Malgrado avessero tentato di integrarsi nella vita di quartiere per altro con buoni risultati, in pochi mesi subiscono ripetuti e violenti sgomberi di cui l’ultimo, documentato dalle telecamere di Rai Tre nazionale, provoca un notevole scandalo. Durante il Mayday 2009 attraversano coraggiosamente le vie di Roma con uno striscione molto esplicito: “SIAMO ROM, NON SIAMO NOMADI. VOGLIAMO LA CASA” e si inseriscono così nei percorsi di lotta per la casa insieme alle altre realtà italiane e migranti. Intorno a loro costruiscono una variegata cintura di solidarietà, in primo luogo l’associazione Popica Onlus, che da anni ha intrapreso con loro programma di integrazione basato sul rispetto della legalità e la scolarizzazione dei minori e che dirige con metodi partecipativi l'autorecupero del capannone, il sostegno dei genitori e degli insegnanti della scuola Iqbal Masih frequentata con successo dai bambini del campo, il percorso attivato dai Bpm per un abitare degno e meticcio, e infine gli Stalker e gli studenti della Facoltà di Architettura di Roma Tre, che attraverso un workshop di arti civiche partecipano al processo di autocostruzione. “Quello che qui si sta costruendo – leggiamo nei volantini - è una importante sfida alla città, un percorso meticcio di rivendicazione del diritto all’abitare, in grado di immaginare e di costruire concretamente un’altra città possibile”. E anche i Rom, che tengono al significato delle parole, ci chiedono di sottolineare: “questo posto non è un “campo”, anzi è la risposta ai campi che per noi stanno costruendo fuori dalla città”.

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