09/06/11

Fare Babele.

Fare Babele. (pubblicato in Gabriele Mina, Fare Babele. Conversazione con Francesco Careri, Manuel Olivares, Michela Pasquali in Gabriele Mina (a cura di), Costruttori di Babele elèuthera, Milano, pp.189197)                                                              


Gabriele Mina: Le esplorazioni di Stalker Osservatorio Nomade spesso registrano, nelle periferie o in altri spazi del tessuto urbano, le tracce di autocostruzioni e spazi temporanei, reinventati da pratiche sociali. Come se la grande New Babylon di Constant si traducesse in una mappa povera, fatta di architetture effimere e abusive, resistenti a qualsiasi pianificazione. Oltre al significato primario – ripararsi, mangiare, incontrarsi, dormire – ti sembra di cogliere in questa “architettura babelica” un significato artistico? Oppure siamo noi, flâneurs delle zone irregolari, a voler cogliere a tutti i costi una bellezza nelle baracche, nel caos delle strutture, nella “architettura senza architetti”?
Francesco Careri: Una frase che io cito spesso di Constant è questa: “I veri costruttori di New Babylon saranno i neobabilonesi”. Constant e i situazionisti venivano criticati di elaborare immaginari senza progettualità: lui replicava che New Babylon sarebbe stata un’architettura della “auto rappresentazione”, costruita dagli abitanti a loro immagine e somiglianza.  
Gli unici veri autori del progetto sarebbero stati loro, attraverso azioni ludiche e interazioni dirette dei corpi con lo spazio. Constant proponeva un reticolo orizzontale, una urbanità fluttuante in un labirinto abitato e trasformato da un popolo nomade. Rileggere ora il progetto di Constant significa anche praticare un nuovo urbanismo negli interstizi di questa società, realizzare New Babylon come micro realtà interculturali, connesse fra di loro. Un urbanismo che si misura con le traduzioni linguistiche e culturali, con l’errore: dalla Babele linguistica, potremmo dire, a Pidgin City. Per partecipare alla costruzione di Pidgin City ci si deve liberare della paura di sbagliare: mettersi in grado di inciampare, sbagliare strada deliberatamente, rendersi disponibili al progetto dell’indeterminato.

Gabriele Mina: Un’arte della trasformazione, dunque, che rifiuta l’assimilazione?
Francesco Careri: Sì, a Pidgin City bisogna liberarsi dell’idea che chi arriva debba essere integrato/assimilato/omologato alla cultura ospitante. I migranti portano con loro una capacità di “trasformazione informale” della città: riabitano molti degli spazi pubblici ormai lasciati vuoti o abbandonati, come anche gli spazi “stravissuti”, gli autobus, le metropolitane, le piazze e i giardini dei centri storici. Parti di città si trasformano attraverso nuovi usi e comportamenti: feste e riti comunitari, abitazioni temporanee, phone center, alimentari e mercati improvvisati… Oppure i “condomini interculturali” dove oltre alle case esistono cortili, giardini, spazi di soglia, spazi inediti di reciprocità, altrove estinti. Potremmo parlare di legittimazione dell’informale e di contaminazione del formale, oppure di un’arte babelica di costruzione: arte non solo “pubblica” o “urbana”, ma impegnata e incarnata, che prende posizione e si prende cura. Un’arte che attraversa la città in modo indiretto e ludico, inciampa in territori inesplorati, produce azioni e immaginari immateriali spesso più utili della pianificazione e della edificazione fisica di luoghi.

Gabriele Mina: Mi viene in mente Savorengo Ker, la casa che Stalker Osservatorio Nomade ha progettato in modo partecipativo e costruito insieme a diversi membri della comunità rom, in uno storico campo nomadi di Roma. Oggi la casa non c’è più e il campo è stato chiuso. Nel finale dello splendido documentario che testimonia la vicenda si vede lo scheletro della casa di legno, dopo l’incendio che l’ha distrutta: assomiglia alla torre di Babele di Bruegel… davvero si può parlare di un’impresa babelica, lingue diverse, scambi di sapere e di identità.
Francesco Careri: Savorengo Ker in lingua romanès vuol dire “la casa di tutti”. È la storia di una piccola casetta di legno costruita nel campo nomadi Casilino 900, sopravvissuta per sei mesi nel 2008. Allo stesso tempo è una storia lunga, fatta di sogni e conflitti, che ha coinvolto gli abitanti del campo, Stalker Osservatorio Nomade, il Dipartimento di Studi Urbani dell’Università di Roma, artisti, media, politici… Una sfida vittoriosa: fare una casa che costi meno di un container ma con prestazioni e dimensioni di una “vera casa”, rispettando le normative edilizie e di risparmio energetico. Ma è soprattutto un primo passo verso la costruzione di una nuova identità: la “baracca con i documenti”, un segno forte di cittadinanza. Ciò che importava non era la casa in sé, ma il processo con cui veniva costruita, attraverso una pratica comune, fianco a fianco, e una trasformazione reciproca, in una logica di superamento definitivo del “campo nomadi”. Non pensiamo a un campo fatto di tante casette di legno tutte uguali, ma un quartiere di case tutte diverse, nate dalle relazioni con gli abitanti, una New Babylon balcanica di desideri abitativi, simile alle chinatown americane, una baraccopoli che diventa città, come per le borgate abusive degli anni sessanta che sono oggi uno dei pezzi migliori di città del dopoguerra.
Gabriele Mina: Un progetto inaccettabile…

Francesco Careri: Polemiche, la stampa che lo definiva “chalet abusivo”, i sigilli al cantiere nonostante la regolarità della documentazione, i politici braccati dai cosiddetti “comitati di cittadini”, ipocrisie e convenienze elettorali… Soprattutto il risvegliarsi di una paura ancestrale: il Rom che viene ad abitare vicino a te in una casa fa ancora più paura di quello che vive in una baracca. Questo prototipo abitativo era proprio una casa, l’archetipo della stanzialità: i Rom ci dicono che vogliono abitare in una casa vera, non in una roulotte né tanto meno in un container, che non vogliono i campi nomadi perché non sono “nomadi” come si vuole far credere, che vogliono mettere radici tra noi. Non lo hanno capito né i media né i politici, né di destra né di sinistra.

Gabriele Mina: E allora arriva il fuoco…
Francesco Careri: La casa è bruciata, ufficialmente colpita da un fulmine. Forse era scritto che dovesse finire così: il fuoco ci è stato promesso da tutti. All’interno del campo la casa aveva prodotto dei malumori, aveva attirato l’attenzione e anche una maggiore sorveglianza da parte delle forze dell’ordine. E all’esterno i nemici sono sempre stati tanti. Ma non mi interessa sapere chi è stato l’autore materiale del rogo. Mi consola che di Savorengo Ker si è parlato in tutti i campi di Roma, che i Rom sono venuti a vederla, hanno visto che il Casilino 900 alzava la testa e in molti hanno creduto che il riscatto fosse possibile e grazie a quell’impresa ci credono ancora, perché come dicono i “direttori dei lavori” Mirsad, Bairam, Hakya, Senad e Kley, e gli altri che hanno partecipato ,“noi quella casa l’abbiamo proprio fatta”.

Nessun commento:

Posta un commento