07/12/13

azioni

di Francesco Careri
pubblicato in Anna Lambertini, Annalisa Metta e Maria Livia Olivetti (a cura di), Città Pubblica / Paesaggi Comuni, Gangemi, Roma, pp. 23-25

“Ecologías de la acción, la actuación que tiene en cuenta su propia complejidad, riesgo, azar, iniciativa y decisión de lo inesperado y lo imprevisto.(Edgar Morin)

Che tradotto in italiano suona: “Ecologia dell’azione, l’agire che tiene in conto la sua propria complessità, il rischio, il caso, l’iniziativa e la decisione dell’inatteso e dell’imprevisto. (Edgar Morin)

È una citazione che ha trovato German Valenzuela a casa mia sfogliando il libro di Teresa Galì-Izard, Los mismos paisajes. Ideas e interpretaciones, edizioni Gustavo Gili di Barcellona. Per non perderla German l’ha scritta in una mail che ha mandato a me e a lui, da qui oggi la ricopio e incollo al principio di questa pagina. Per la verità ora l’ho anche cercata nel libro per indicare meglio la referenza, ma niente da fare, non la trovo. In ogni modo Morin da qualche parte deve averla scritta e comunque io e German ne abbiamo parlato fino a tarda sera. German Valenzuela insegna architettura a Talca in Cile, era ospite da me per lavorare insieme al workshop PICS dove abbiamo realizzato insieme a molti altri, il parco Feronia a Pietralata. German ha cominciato dicendo che questa frase spiega perfettamente quello che stiamo facendo in questi giorni: procedere alla trasformazione della città attraverso l’architettura, ma senza un progetto vero e proprio e in balia del caso e dell’imprevisto. Una scelta ecologica capace di rimanere aderente alla realtà -  ci siamo detti - capace di adattarsi al territorio nel suo divenire, di modificarsi con le azioni di tutti, con i desideri dei singoli. Io gli ho detto che è proprio quello che io intendo quando dico che non è vero che agisco senza un progetto, ma solo che il progetto è indeterminato, che non credo più in quel Progetto con la P maiuscola, il progetto determinato, che si realizza come lo si è disegnato. Ci siamo trovati d’accordo sul fatto che anche il disegno conta, è uno degli strumenti con cui controllare il processo, ma che poi durante il processo intervengono così tanti imprevisti, che poi l’opera prende una forma che al principio non era assolutamente visibile. Prende forma nella sua azione di nascere, crescere, maturare, produrre dei frutti, dare semi, per poi ricominciare.
Provo qui di seguito a scrivere su una serie di azioni e di parole su cui in questi giorni ci siamo interrogati:


Ricerca. Non amo la ricerca che serve solo a chi la fa. Soprattutto in questi anni di crisi, in cui sono tornati temi di carattere “sociale”. I giovani ricercatori scelgono casi studio nelle periferie del mondo, territori informali, slum, occupazioni. Architetti e urbanisti si travestono da etnografi, fanno domande, chiedono agli abitanti di regalargli il loro tempo, le loro storie, i loro saperi e poi se ne vanno, scrivono la loro ricerca che finirà in una pubblicazione, che non leggerà nessuno e che sarà messa sul tavolo di una commissione di un concorso per avere un posto in un istituto di ricerca, fanno carriera in una università o in una organizzazione internazionale umanitaria. Nulla di tutto ciò torna utile al territorio studiato.

Partecipare. Parola che nasconde molte ambiguità perché spesso usata in modo demagogico, soprattutto da architetti urbanisti e politici. Non solo quando la partecipazione è pura creazione di consenso, ma soprattutto quando si pretende che i cittadini debbano partecipare a un progetto partecipativo. Il difficile della partecipazione non è comprendere con quale metodologia far emergere i desideri inespressi, ma capire qual è il progetto che i cittadini hanno attivato e, se si è d’accordo, parteciparvi.

Attivare processi. L’ultima moda di chi ha compreso che la parola progetto ha cominciato a perdere appeal è quella di proporsi come attivatori di processi. Più vado avanti e più mi sembra che queste parole insieme suonano vuote e false. È molto difficile attivare veramente processi duraturi. Di solito questi generi di processi si concludono con le foto di rito di un banchetto o di una grande assemblea che poi non avrà più seguito. Mi sembra più onesto allora proporsi come esploratore desiderante di processi in atto. È più onesto e progettuale partecipare a un processo in corso e alimentarlo apportandovi energia. Se il processo era già in atto ci sono più speranze che questo continui anche dopo la nostra uscita dal campo di gioco.

Presa in cura. Se si decide di fare una ricerca in un territorio e di voler partecipare alla sua trasformazione con delle azioni architettoniche, è bene scegliere il luogo in base alla presa in cura delle architetture che si producono. Se qualcuno già tagliava l’erba di un parco vuol dire che la continuerà a tagliarla anche dopo che noi siamo intervenuti. Se qualcuno si è costruito una casetta per necessità di vita o di svago vuol dire che abiterà con piacere anche la casetta che noi gli faremo la suo posto. Ma forse ogni tanto avrà nostalgia di quella che si era costruito con le sue mani. Lasciare a lui la decisione e il compito di smontarla per fare posto alla nuova.

Legittimare. Inserirsi tra legale e illegale per rendere legittimo ciò che nasce fuorilegge. Normative e burocrazia sono capaci di bloccare ogni processo rigenerativo e di rimandare ogni azione a tempi  biblici in cui il processo in corso potrebbe non essere più attivo, stanco di aspettare. L’unica strada è quella di non chiedere permessi, non firmare nessuna carta.

Orti urbani. Sono come i sentieri. Se ci sono vuol dire che qualcuno ci passa e con il suo uso li mantiene in vita, altrimenti spariscono, la natura se ne riappropria. Sono luoghi delicati a cavallo tra cultura e natura, un principio insediativo arcaico, sensibile, poetico. Coltivare la terra richiede impegno, corpo, sudore, azione… ricercatori lasciateli stare forse non fanno per voi. Sono ormai inevitabili, in ogni progetto sostenibile che si rispetti ci devono essere. Almeno sulla carta.

Arte.

Architettura.

No-Autocad.

Infrastrutturazione Microurbanistica.

Queste parole invece le lascio riempire a voi che state leggendo, anzi vi propongo di agirle piuttosto che scriverne. Ne proverete sicuramente più soddisfazione. Vi lascio invece con la successiva mail di German, sempre di appunti di quella sera, parlando in particolare di cosa dovrebbe essere una Tesi del nostro Master Arti Architettura e Città.

el proyecto deja el paso a la idea del proceso
ello significa que la acción del arquitecto no es tanto sacar fuera de si las ideas y plasmarlas en un papel tanto como poner en movimiento esas ideas y proponer una FORMA de HACER

la acción que promueve la interacción de las partes, de todo aquello que se involucra en la producción de la realidad.

la tesis no es ya una retórica tanto como una discusión en movimiento, que busca una lógica que permita la materialización. 

No es ya la proyección de una FORMA, una FUNCIÓN y un PROGRAMA sino también la organización de una forma de actuar que se pone en cuestión....

La cui traduzione è:
Il progetto lascia il passo alla idea di processo

Questo significa che la azione dell’architetto non è tanto tirar fuori da sè delle idee e di plasmarle in un foglio, ma è come mettere in movimento queste idee e proporre una FORMA di FARE

La azione che promuove l’nterazione tra le parti, di tutto ciò che si coinvolge nella produzione della realtà

La tesi non è tanto un impianto toerico ma una discussione in movimento, che cerca una logica che permette la sua materializzazione.

Non è la proiezione di una FUNZIONE o di un PROGRAMMA ma anche il porsi la questione dell’’organizzazione di una forma di agire...


Roma 29 maggio 2013







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